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Collage di Dhamma


del venerabile Ajahn Jayasaro

 

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Silvana Ziviani.

Estratti di alcuni discorsi tenuti da Ajahn Jayasaro alla comunità monastica di Wat Pah Nanachat, Thailandia, pubblicato in inglese nel 'Forest Sangha Newsletter', n. 70. 

 


La similitudine del vaso d’olio

Il Buddha spiegò la pratica della consapevolezza usando la similitudine del vaso d’olio. Un uomo doveva portare un grande vaso pieno d’olio su un sentiero accidentato attraverso una folla di spettatori che stavano osservando una bellissima danzatrice. L’uomo doveva evitare di rovesciare anche una sola goccia d’olio, perché dietro di lui c'era un uomo con una spada che gli avrebbe tagliato la testa se ne avesse versato anche solo una goccia. Ora, se immaginate di essere voi a dover portare quel grande vaso pieno d’olio, dove mettereste l’attenzione? Non potreste guardare la danzatrice o lasciarvi distrarre dalla folla. Probabilmente l’attenzione sarà fissa soprattutto sul vaso, ma non potreste neanche ignorare lo stato della strada; dovrete evitare le buche, dovreste ogni tanto guardare davanti a voi per vedere se ci sono ostacoli e poi riportare l’attenzione sull’oggetto principale, il vaso d’olio. Perciò sarete occupati col vaso la maggior parte del tempo, ma dedicherete altro tempo anche a guardare davanti a voi e a controllare lo stato della strada. Questa è la similitudine per la pratica di sati, della consapevolezza. Sampajañña, chiara comprensione, si ha quando ci si allontana un momento dall’oggetto di sati per vedere l’intero contesto di quello che stiamo facendo. Che altro sta accadendo? Ci sono ostacoli o impedimenti che sorgono nella mente? Ci sono problemi che si presentano?
 

Samatha e irritazione 

Sulla via della pratica di samatha è normale giungere a un certo livello in cui si diventa molto giudicanti e irritabili con gli altri, pronti ad arrabbiarsi se gli altri disturbano la nostra meditazione. Si sviluppa una certa paranoia per cercare di proteggere il proprio samadhi. Inoltre ci sono molti scritti autorevoli che sostengono questo atteggiamento possessivo. Il Buddha ha detto: "Prendetevi cura del vostro oggetto di meditazione, ogni momento. Non permettete che il vostro samadhi venga dissipato”. Ci ha raccomandato di evitare inutili situazioni di disturbo. Ma possiamo portare questa raccomandazione troppo avanti. Possiamo sentirci a buon diritto irritati con la gente, le cose, le situazioni, le responsabilità che potrebbero avere un effetto nocivo sulla pace – la mia pace! – che cerchiamo di sviluppare. Questa è una delle impurità della pratica di samatha.

Può essere difficile e frustrante restare con l’oggetto di meditazione: certo! Ma cercate di non buttare la colpa di questa difficoltà sugli altri. E’ meglio considerarla una sfida. Un altro modo per far fronte alla tensione e impedire che questa sopraffaccia la mente, è la pratica di metta.
 

Attenzione corretta e immagini interiori

E’ importante vedere se prestiamo attenzione in modo destro o maldestro a ciò che ci piace o non ci piace. Il primo impedimento, il desiderio dei sensi, nasce perché prestiamo un’attenzione poco corretta a ciò che è piacevole. Quando siamo di fronte ad un oggetto piacevole, la mente non esercitata tende a restringere la propria attenzione, concentrandosi esclusivamente sugli aspetti piacevoli dell’oggetto. Invece quando si presenta un oggetto spiacevole, non bello o semplicemente neutro, la mente non addestrata censura o esclude. Quando pensiamo a un oggetto piacevole, a una persona o ad un avvenimento, ne ricordiamo solo una piccola parte, non la cosa intera.

L’aspetto piacevole di un qualcosa è chiamato subha nimitta. Nimitta vuol dire "immagine" o "aspetto"; nimitta è solo un aspetto dell’oggetto non un’accurata rappresentazione di esso in tutta la sua complessità. Nel caso di qualcosa di piacevole, tendiamo a concentrarci su subha nimitta, il suo aspetto attraente. Tendiamo ad alimentare questi subha nimitta: i subha nimitta che riguardano la sessualità, il cibo, o i luoghi che abbiamo visitato.

Ce n’è un’infinità di questi subha nimitta nella mente; la mente li prende su e comincia a coccolarli, a magnificarli, cercando di ricavarci tutto il piacere possibile. Il vezzeggiarli li rende più forti e la mente si sente attirata da essi come da calamite. E’ così che il desiderio sensuale sopraffa completamente la mente. Vezzeggiando le immagini si indeboliscono i dhamma positivi del distacco e del lasciar andare e si intensificano i dhamma negativi dell’attaccamento e della seduzione.

Con il secondo impedimento, l’odio, abbiamo gli asubha nimitta: immagini di persone, eventi ed esperienze che non ci piacciono. Tendiamo a prendere queste immagini come precise, dirette, rappresentative della realtà, mentre invece dipendono dall’azione di censura ed eliminazione di importanti informazioni, che cambierebbero completamente la percezione dell’oggetto. L’asubha nimitta può riguardare qualcosa di esterno – una persona, un luogo – o può riferirsi a qualcosa di interiore, ad uno dei nostri tratti caratteriali che non ci piacciono. Se ci soffermiamo sugli asubha nimitta nel modo sbagliato, si rinforzano i dhamma non salutari e si indeboliscono i dhamma benefici, come il senso di distacco, di perdono, di metta e così via, perdendo così ogni senso delle proporzioni.

Sopportazione paziente

Nei monasteri della foresta, soprattutto nella mia generazione, l’insegnamento sulla sopportazione paziente ci era inculcato quasi ogni giorno. La sopportazione paziente divenne la nostra aspirazione. Certe volte la cosa si spingeva un po’ oltre; quando dei giovani sono ispirati dalla sopportazione paziente, possono arrivare a una specie di competizione tra di loro e cominciare a ostentarla, cercando di far vedere quanto sono resistenti. Ma non è corretto criticare un insegnamento solo perché talvolta viene mal compreso e praticato male.

Un’altra risposta a questo insegnamento era: “Perché praticare qualcosa che non ci piace? Che perdita di tempo. Perché non scovare qualcosa che ci piace? Godiamocela! La vita è breve!” Il Buddha però ha detto che saper sopportare pazientemente ciò che non ci piace è un meraviglioso ornamento della mente. Se non avete una paziente sopportazione, al primo furioso assalto di sgradevoli vedana, di sgradevoli sensazioni, correte il rischio di esserne sopraffatti prima che la cavalleria – la consapevolezza – possa correre in vostro soccorso. Avete già perso. Ciò di cui avete bisogno è saper resistere al primo attacco delle impurità, saper resistere con fermezza. A meno che non abbiate una sati ben sviluppata, quando vi sentite presi di contropiede, quando all’improvviso provate un dolore fisico, o qualcuno vi offende, è molto probabile che in quel momento non riusciate a trovare sati. Se invece avete una paziente sopportazione, riuscite comunque ad affrontare queste cose. Più vedete i benefici della sopportazione paziente, più aumenta la fiducia in essa e più sarete motivati a coltivarla.

Su questo non potevamo avere un maestro migliore di Ajahn Chah. Vi ho parlato spesso delle lotte che da giovane dovette sostenere contro il desiderio sessuale. In quel periodo infatti la sua pratica era una vera e propria battaglia. Non si può parlarne che usando termini e immagini marziali. Una volta la sua mente fu ossessionata da forti e oscene visioni erotiche e allucinazioni per sette giorni e sette notti, prima che finalmente cessassero. In seguito Ajahn Pasanno gli chiese con quali abili mezzi avesse affrontato quegli incredibili attacchi di lussuria e desiderio sessuale. Ajahn Chah rispose: “Niente di speciale: li ho sopportati e basta”.
 

Insegnamenti sul Samsara

Trovo molto utili gli insegnamenti del Buddha sul samsara. Se veramente credete di essere rinati già molte, molte volte, dieci o venti anni di pratica meditativa, o addirittura trenta o quaranta anni non sono che un batter d’occhio. Alcuni assumono un atteggiamento agnostico, dicendo: “Non preoccuparti delle vite passate o future; concentratevi solo sulla vita presente”. Ma se riuscite a considerare solo questa vita, allora essere monaci per cinque o dieci anni sembra chissà che cosa. Se il Buddha non avesse ritenuto utile che noi considerassimo il samsara, perché ne avrebbe parlato così tanto?


Essere qualcuno

Ricordo che una volta sentii una donna dire a suo figlio: “ Ricordati che anche se adesso sei povero puoi diventare qualcuno; puoi diventare chiunque se veramente lo vuoi”. Questo è lo scopo della vita per molti, vero? Essere qualcuno; ma che modo triste di vivere la propria vita! Il desiderio di diventare qualcuno si esprime nel desiderio di essere amati, di essere approvati, di essere desiderati, di essere essenziali. Disgraziatamente è un desiderio che ha le sue ombre. Chi la pensa così è sempre assillato dalla paura di non essere nessuno, dalla paura di non essere essenziale, dalla paura di sparire tra le sabbie del tempo senza lasciar traccia.

Alcuni anni fa, un politico fu assassinato negli Stati Uniti, credo nel Profondo Sud. Quando presero l’assassino egli gridò esultante: “Ora sono una millesima parte della storia!” come se la sua motivazione fosse stata quella di avere il proprio nome sui giornali, spaventato di poter morire senza che nessuno conoscesse il suo nome. Questo è un tipo di bhava tanha, desiderio di essere, che ha assunto una grande importanza negli ultimi 100 o 200 anni. Prima della rivoluzione industriale era una cosa quasi sconosciuta.

Le grandi cattedrali furono probabilmente le più importanti creazioni artistiche del Medio Evo, eppure nessuno pensò mai di trasmettere il nome degli architetti o degli artigiani che le realizzarono. Anche nella grande arte orientale, nessuno pensò mai di scrivere il proprio nome in un angolo del quadro. Se guardate sul retro delle grandi immagini del Buddha in Thailandia non vi troverete inciso il nome dell’autore che l’ha disegnata o realizzata. La gente non era interessata a ciò. Non so poi quando si cominciò a mettere la firma.


Alla ricerca di peperoncini dolci

C’è un mondo di differenza tra accettare l’idea dell’impermanenza a livello intellettuale e penetrarla realmente con la saggezza. Probabilmente nessuno al mondo, quale che sia la sua cultura o la sua religione, negherà che le cose cambiano. Ma oltre alla superficiale comprensione intellettuale del cambiamento, vi è un punto in cui la percezione del cambiamento stesso vi cambia. Avviene solo attraverso la pratica, riconoscendo fino a che punto abbiamo cercato la felicità in cose che non durano. Questo è lo sbaglio fondamentale che tutti facciamo, perché non siamo presenti mentalmente, perché non vogliamo vedere. Rimane sempre una piccola speranza.

C’è la famosa storia di Mulla Nasruddin che, con la faccia inondata di lacrime, stava mangiando fino a svuotarlo un sacco di peperoncini. Quando gli chiesero spiegazioni disse che sperava sempre di trovare un peperoncino che fosse dolce. Noi facciamo lo stesso. Ci continuiamo a ripetere che prima o poi troveremo un peperoncino dolce, che troveremo qualche condizione che non sia impermanente al pari di tutte quelle che abbiamo sperimentato fino ad ora. La parte razionale della mente ci dice: “no non è possibile”, ma c'è ancora quel desiderio emotivo.

Le giovani coppie sbaciucchiandosi sotto la luna dicono: “Se potessimo far durare per sempre questo momento, questa serata!” ma desiderano che duri per sempre proprio perché sanno che non durerà. Anzi sarebbe una cosa piuttosto miserabile se accadesse, no? La gente crede che la felicità consista nel piacere che dura per sempre, ma la felicità non è così. Anche se lo sbaciucchiamento durasse per sempre, non potreste goderne perché il corpo si stancherebbe; l’eccitamento è stancante. Anzi niente è godibile per sempre, non credete? Quanto tempo potete godervi qualcosa prima di esserne annoiati?

La persona senza saggezza è come uno che sta annegando e si aggrappa a dei fili di paglia, che si aggrappa a qualsiasi cosa che dia un’ultima felicità. Ma niente dura. Niente può farvela durare. Niente vi darà una permanente felicità. Perfino i regni celesti sono impermanenti. In paradiso potete essere al centro di un party in cui cinquecento giovinette se la spassano con voi, raccogliendo margherite e facendone collane, con questo sballo per eoni ed eoni. Poi all’improvviso i fiori cominciano a sfiorire. Il tempo concessovi è finito.

Il Buddha ci ha riportato le sue riflessioni su questo argomento: “Prima della mia illuminazione, pur essendo soggetto alla nascita, alla vecchiaia e alla morte, cercavo la felicità nelle cose che erano anch’esse soggette alla nascita, alla vecchiaia e alla morte”. Rifletté che questa scelta non era né adatta né appropriata a una persona intelligente. Questa riflessione lo portò a intraprendere quella che chiamò la ‘nobile ricerca’. Non era la ricerca di piaceri materiali; era la ricerca di liberazione.


Auto-percezione e malintesi

Che accade quando vi si accusa erroneamente di qualcosa? Che cosa accade quando vi accusano di avere agito egoisticamente, mentre invece lo avete fatto generosamente, senza alcun egoismo? Come ci si sente? Come ci si sente quando si è malintesi in questo modo? Il senso di sé, la persona che credete di essere, il senso di essere qualcuno, chiunque, è un’espressione di ignoranza. Ogni volta che avete la sensazione di essere qualcuno, vi ponete come il pupazzo della Vecchia Sally alla fiera che va abbattuto a forza di pallate. Troverete che la sofferenza è immediata. Anche se gli altri hanno una percezione di voi non negativa, vi turbate lo stesso se essa non corrisponde a quella che voi avete.

Talvolta incontrate qualcuno che è assolutamente convinto di conoscervi meglio di quanto voi vi conosciate. Trovavo insopportabile quando mia madre mi diceva: “Ti leggo come un libro aperto”. E io di rimando: “No, non puoi” e insistevo che lei non poteva conoscermi affatto. Certe volte trovate che la percezione che hanno gli altri di voi non corrisponde a quella che avete voi. Stamattina ne ho avuta una interessante riprova. Qualcuno in cucina ha sentito dire a due giovani donne venute in visita al monastero, che secondo loro gli occhi dell’abate – cioè i miei – brillavano come quelli di un carnefice. Perciò credo che non ritorneranno più qui.

Ricordo una volta in cui un laico piuttosto confuso chiese ad Ajahn Chah quale fosse lo scopo della pratica. Aveva letto moltissimi libri; libri di Zen, libri sul Mahayana, libri sul Taoismo, libri su Don Juan. Chiese ad Ajahn Chah: “Dobbiamo praticare per diventare bodhisattva o arahant?” Ajahn Chah rispose: “Non diventare niente. Non diventare un arahant. Non diventare un bodhisattva. Il momento che diventi qualcuno, stai già soffrendo”.


Vanità

Il maestro del re Ashoka da giovane vendeva profumi. La più affascinante cortigiana della città si innamorò di lui e fece del suo meglio per attirarlo nel suo letto. Ma egli non voleva avere niente a che fare con lei. Naturalmente, essendo ormai completamente infatuata di lui, il fatto che egli fosse l’unico uomo nel giro di parecchie miglia che non approfittava della possibilità di passare una notte con lei, glielo rese ancora più seducente. Lo invitò varie volte da lei, ma lui continuava a rispondere “non è ancora tempo”.

Una sera stava intrattenendo un ospite quando le fu annunciata la visita di un uomo immensamente ricco. L’unico modo per liberarsi dell’ospite che stava con lei era quello di ucciderlo e così dette ordine di eliminarlo, ma fu colta sul fatto e condannata a una pena atroce: le furono tagliate le mani, i piedi, il naso e le orecchie; poi, dopo questa punizione tremenda fu gettata in un campo di cremazione per morirvi. Ancora vestita dei suoi ricchi abiti di seta, giaceva lì, con le mani, i piedi, il naso e le orecchie sparsi intorno a lei. La sua serva fedele le sedeva accanto mentre la vita gradualmente la lasciava. All’improvviso la serva vide che si accostava qualcuno e riconobbe quel giovane a cui la sua padrona aveva fatto la corte per tanti anni. Aveva sempre detto “non è ancora tempo” e sceglieva proprio quel momento per venire! Appena informò la sua padrona della visita, la prima reazione della morente fu “Oh, non mi deve vedere in queste condizioni! Presto raccogli le mani, i piedi, il naso e le orecchie e coprile con un panno”, tale era l’intensità della sua vanità perfino negli ultimi momenti della sua vita! Pensò che era meglio che il giovane non vedesse le amputazioni subite. Nel frattempo il giovane si accostò e tenne un magnifico discorso sul Dhamma. Prima di morire essa divenne sotapanna, una che "è entrata nella corrente". Dal punto di vista del Dhamma, è una storia a lieto fine!


Gratitudine verso i genitori

Una volta da ragazzo, prima di diventare monaco, ho viaggiato attraverso l’Iran. A quei tempi ero proprio uno spiantato. Vivevo in grandi ristrettezze, sopravvivendo grazie alle elemosine. Un giorno mi avevano dato alcune monete. Conoscevo un posto dall’altra parte di Teheran dove servivano una grande ciotola di zuppa in cambio di poco denaro e tutto il pane che si poteva mangiare. Quel giorno perciò di primo mattino stavo camminando verso quel centro di ristoro attraverso la città. Incontrai una donna che era ovviamente appena uscita di casa per avviarsi al lavoro. Mi guardò con aria molto disgustata, cosa che, devo ammetterlo, fu abbastanza normale dato che ero veramente disgustoso. Venne nella mia direzione e con aria severa mi fece segno di seguirla. Andammo nel caseggiato di appartamenti in cui viveva e prendemmo l’ascensore. Durante il percorso non mi disse una sola parola, per cui non sapevo che intenzioni avesse. Mi portò nel suo appartamento e sgarbatamente mi condusse in cucina, mi fece sedere, mi mise davanti un immenso piatto di cibo e mi guardò mangiare finché fui completamente sazio. Poi sbraitò qualcosa in persiano; suo figlio venne con una camicia pulita e un paio di pantaloni. Mi fece capire che gli indumenti che indossavo meritavano di essere bruciati e mi indicò il bagno affinché mi lavassi e mi cambiassi, cosa che feci. Quando uscii dal bagno, mi indicò la porta, uscimmo, entrammo in ascensore e di nuovo fuori sulla strada. Poi semplicemente se ne andò senza dire una parola. Ero veramente colpito.

La mia fortuna cambiò. Ritornai in India per vivere una vita più meditativa. In seguito mi venne da ricordare quella donna a Teheran e quanto mi avesse colpito il suo modo di fare. Ero sicuro che non avrei mai dimenticato ciò che aveva fatto per me. All’improvviso mi venne in mente che, mentre sentivo tanta gratitudine per qualcuno che in fondo mi aveva dato solo del cibo e una doccia, per 18 anni ero vissuto con i miei genitori e avevo dato per scontato tutto quello che avevano fatto per me: mi avevano dato tre pasti al giorno, tutti i vestiti di cui avevo bisogno e se mi ammalavo, si preoccupavano molti di più di quanto lo facessi io. Provavo più gratitudine per quella donna iraniana che per i miei genitori. Capii quanto ero stato superficiale, quante cose avevo ricevuto da ragazzo senza mai dar loro nessuna importanza.

Credo che i problemi irrisolti con i propri genitori siano uno dei maggiori ostacoli al progresso spirituale; l’incapacità di perdonarli perché non sono stati perfetti, per non essere stati quello che noi avremmo voluto che fossero, per essere stati pieni di avidità, odio e illusioni, per essere stati degli esseri non illuminati. Questo è un punto che noi monaci dobbiamo considerare. E’ una specie di ferita che ha bisogno di tempo per guarire.


La pratica di Metta

Molti di noi hanno problemi con i dettagli pratici della meditazione di Metta. Ci chiediamo come comportarci, che metodi usare. Un approccio che ho trovato utile nella mia pratica è quello di far sorgere un sentimento di metta e poi espanderlo. E ho anche scoperto che il modo più facile per produrre un sentimento di metta è pensare a mia madre e al suo amore. Credo che molti di noi lo conoscano. Sanno com’è. Quando penso a mia madre sento nel cuore, nella zona del petto, un senso di calore. Lo prendo allora come un oggetto di meditazione e, partendo da esso, sviluppo la meditazione di metta. Pensare all’amore della propria madre non è semplicemente una divagazione sentimentale. E’ immensamente prezioso, e ha un valore pratico.


Gratitudine e umiltà

In questa tradizione, ci sforziamo di essere il nostro stesso rifugio, di essere responsabili di noi stessi e della nostra condotta. In questo tipo così individualistico di pratica, è proprio riflettendo su quanto ci è stato dato, che ci preveniamo dal cadere preda dell’orgoglio. Ci salviamo dai pericoli dell’orgoglio spirituale, ricordando la nostra connessione con gli altri, ricordando ciò che abbiamo ricevuto. Questo genere di riflessione aiuta l’umiltà, l’umiltà genuina, una delle più belle qualità spirituali. Non è la bardatura esterna di umiltà, non un semplice ideale a cui cerchiamo di conformarci, ma un’umiltà che deriva dal non aggrapparsi al proprio sé e dal riconoscere che tutto quello che abbiamo ci è stato dato.


Gioia riconoscente

Non molti sono in grado di sviluppare la meditazione sulla gioia riconoscente, mudita. E’ un peccato perché è una cosa meravigliosa da fare. Ripeto spesso che è la via all’illuminazione di una persona pigra, perché in effetti non bisogna far niente, solo apprezzare ciò che fanno gli altri. Vi mettete in un angolo, osservate e vi godete la bontà degli altri, mentre sentite che la mente diventa sempre più pura.

Mentre coltivate mudita, sentirete che la mente sviluppa una naturale sensibilità verso la bontà. E’ come se studiaste la vita delle piante o le erbe ed entraste in una foresta; automaticamente sapreste che tipo di albero è quello, che tipo di pianta è quella, quali possono essere usate come medicamenti, e così via. Stando nella foresta, la mente si volgerebbe assai naturalmente verso queste considerazioni. Allo stesso modo, quando sviluppate mudita, diventate sempre più sensibili verso la bontà e verso le buone intenzioni degli altri.

Questo atteggiamento riconoscente comincia a sostituire le reazioni negative e ciniche che fanno parte di molti di noi. In una comunità monastica naturalmente non è difficile vedere la bontà in ogni momento della giornata. Anzi, è strano non vederla.

Potete notare atti di gentilezza anche per strada. Ricordo un giorno che durante il nostro giro di questua, ad uno cadde qualcosa e un altro lo avvertì: “Ti è caduto qualcosa” e poi lo raccolse e glielo restituì. Il primo lo ricevette con un sorriso e un ringraziamento. Era una cosa veramente bella da vedere e mi rallegrò tutta la giornata. Non c’è alcuna ragione perché la gente faccia così eppure lo fa; è bello da vedere. Non vi è neanche una ricompensa, è semplicemente la cosa naturale da fare. E’ la naturalezza di queste azioni che ce le rende belle, l’intuizione di ciò che è capace il cuore.


Considera quanti doni hai ricevuto

Spesso mi vengono in mente le sagge parole dei miei genitori quando ero piccolo. Per esempio, ricordo che mio padre mi diceva spesso: “Siedi eretto!”, solo ora capisco quanto fosse saggio e profondo quell’ammonimento, anche se a quel tempo non mi piaceva un granché.

Un’altra frase della mia infanzia era “Considera quanti doni hai ricevuto!”. Probabilmente molti inglesi la conoscono. Credo che in questa comunità monastica è particolarmente adatto ricordarsene, perché facilmente potremmo prendere per scontato tutto ciò che abbiamo: riceviamo cibo ogni giorno, abbiamo le capanne per proteggerci, abbiamo buoni amici con cui vivere. Se riflettiamo continuamente ai doni che abbiamo, non solo a quelli materiali, ma anche a quelle piccole vittorie spirituali che otteniamo e alla bontà che creiamo intorno, allora diminuisce parecchio lo scontento che proviamo verso il progresso o meno della pratica. Valutare i doni che abbiamo serve da cuscino, a creare un senso di benessere che ci permette di sopportare gli alti e bassi della pratica, i momenti difficili, le delusioni e il disappunto che inevitabilmente sorgono, e quando realizziamo che il lavoro che abbiamo intrapreso è molto più difficile di quanto all'inizio pensassimo. Questo non è un ritiro di dieci giorni, è la pratica di dieci anni, venti anni, trenta anni, se uno è fortunato. Se considerate i vostri doni, finirete col sentire che “non c’è niente altro che vorreste fare”. C’è la sensazione che stiamo facendo esattamente ciò che va fatto. Questo è un rifugio splendido.
 

 

Source : http://santacittarama.altervista.org/insegnamenti.htm

 

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