Majjhima Nikāya 5
Anangana Sutta
Innocenza
Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sāvatthī, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anāthapindiko. Là l’onorevole Sāriputto così si rivolse ai monaci: “Fratelli, nel mondo si trovano quattro specie di uomini: chi è colpevole e non riconosce di esserlo; chi è colpevole e riconosce d’esserlo; chi è innocente e non riconosce d’esserlo; e che è innocente e riconosce, conforme a verità, di non avere colpa.
Però il colpevole che non riconosce di essere tale è il peggiore, e l’altro che riconosce d’essere colpevole è il migliore dei due colpevoli. Ugualmente l’innocente che non ammette di esserlo è il peggiore, e l’innocente che riconosce, secondo verità, di non aver colpa è il migliore dei due innocenti”.
A queste parole l’onorevole Mahāmoggallāno chiese: “Ma qual è, fratello Sāriputto, la ragione, la causa, che indica chi è il peggiore e chi il migliore tra i due colpevoli e tra i due innocenti?”
“Se, fratello, un colpevole non riconosce d’esserlo allora c’è da aspettarsi che egli non eserciti la volontà, non lotti, non si sforzi di rimediare alla sua colpa, e invece, carico di brama, di avversione, di errore, di colpa, muoia con cuore non terso. Così come se vi fosse un piatto di bronzo acquistato al mercato o dall’artigiano, pieno di sporcizia e di macchie, e i proprietari non lo usassero né lo pulissero, ma lo gettassero in un angolo: allora, fratello, questo piatto di bronzo diverrebbe di certo più sporco e macchiato di prima.
Se invece un colpevole riconosce di esserlo, ci si può aspettare che eserciti la sua volontà, lotti, trovi la forza di rimediare alla sua colpa, e che, senza brama, senza avversione, senza errore e senza più colpa, muoia col cuore terso. Così come se un piatto di bronzo acquistato al mercato, fosse pieno di sporcizia e di macchie, ma i proprietari lo pulissero e lo usassero invece di gettarlo in un angolo: allora, fratello, il piatto diverrebbe di certo lucente e terso”.
“Certamente, fratello!”
“Se, fratello, un innocente non si riconoscesse tale, ci si può aspettare che egli si lasci attrarre dallo splendore delle cose, e, attratto da esse, faccia travolgere il suo cuore dalla brama; e poi, carico di brama, di avversione, di errore, di colpa, muoia col cuore non terso. Così come, fratello, se vi fosse un piatto di bronzo, acquistato lucente e terso, ma i proprietari, invece di usarlo o pulirlo lo sbattessero in un angolo: allora, fratello, il piatto dopo qualche tempo diverrebbe di certo sporco e macchiato. Mentre se egli riconoscesse la propria innocenza, ci si potrebbe aspettare che non si farebbe attrarre dallo splendore delle cose, non farebbe travolgere il suo cuore dalla brama, e poi, senza brama, senza avversione, senza errore, senza colpa, muoia col cuore terso. Così come se un piatto di bronzo acquistato, fosse lucente e terso, e i proprietari lo pulissero e lo usassero, senza gettarlo in un angolo: allora, fratello, il piatto diverrebbe anche più lucente e più terso di prima.
Questa dunque, fratello Moggallāno, è la ragione, questa è la causa per cui uno dei due ugualmente colpevoli lo si indica come il peggiore e l’altro come il migliore; lo stesso dicasi dei due ugualmente innocenti.
“La colpa, la colpa", così si esclama, fratello; ma cosa s’intende propriamente sotto tale concetto?”
“I perniciosi, dannosi moti dell’animo, fratello, quelli s’intendono sotto il concetto di colpa.
E’ possibile che a un monaco venga in mente: “Se ho sbagliato, gli altri non hanno bisogno di saperlo.” Ma se lo vengono a sapere egli s’amareggia e s’adira. Questa amarezza e quest’ira sono entrambe colpe. E’ possibile che gli venga in mente: “Se ho sbagliato, i fratelli mi devono richiamare in segreto, non davanti agli altri monaci.” Se invece essi lo richiamano pubblicamente, non in segreto, allora egli si amareggia e s’adira. Oppure potrebbe venirgli in mente: “Se ho sbagliato, può ammonirmi un amico, non un altro monaco”. Potrebbero anche venirgli in mente tutte queste altre cose:
“Ah, se il Maestro potesse esporre la dottrina ai monaci mentre dialoga con me, non con un altro monaco.”—“I monaci nell’andare verso il villaggio per l’elemosina dovrebbero mettere alla testa me, non un altro!”—“Oh, se al pasto toccasse a me la migliore sedia, la migliore acqua, il migliore boccone!” Oppure: “Oh, se io solo potessi saziarmi al pasto!” E ancora:
“Se i monaci vanno in giardino dovrei essere io e non altri a esporre la dottrina.”—“Se le monache vanno in giardino dovrei essere io a spiegare la dottrina.”—“Se i seguaci d’ambo i sessi vengono in giardino dovrei essere io a esporre la dottrina.”—“I monaci dovrebbero valutare, pregiare, stimare me solo, non altri.”—“Le monache dovrebbero valutare, pregiare, stimare me solo, non altri.”—“I seguaci dovrebbero valutare, pregiare, stimare me solo, non altri.”
“A me si dovrebbe far ottenere una veste scelta, non ad altri.”—“A me si dovrebbero dare bocconi scelti, giaciglio scelto, medicine scelte in caso di malattia, e non ad altri.”
Se tutti questi pensieri e desideri non si realizzassero e accadesse il contrario, egli si amareggerebbe e si adirerebbe. Questi due moti dell’animo sono colpe.
Un monaco, fratello, presso cui questi perniciosi, dannosi moti dell’animo si mostrano, si manifestano non attenuati, anche se egli fosse un solitario eremita della foresta, un muto mendicante di briciole, se fosse coperto da una veste di stracci da lui rappezzati, non sarebbe dai suoi fratelli dell’ordine ben considerato, pregiato, stimato, onorato. Così come se vi fosse un piatto di bronzo, lucente e terso, e i proprietari lo riempissero di pezzi di carogna di serpe o di cane o di uomo, lo coprissero con un altro piatto e lo portassero al mercato. E se uno chiedesse cosa esso nasconde, sollevasse il coperchio e guardasse il contenuto provando ripugnanza, nausea e ribrezzo, e persino agli affamati passasse la voglia di mangiare; lo stesso accadrebbe ai suoi fratelli dell’ordine.
Un monaco, fratello, presso cui quei perniciosi, dannosi moti dell’animo non si mostrano più, non si manifestano più, anche se fosse un girovago di campagna, che mangia invitato, che è coperto da veste donata, verrebbe dai suoi fratelli dell’ordine altamente valutato, pregiato, stimato e onorato perché in lui quei perniciosi, dannosi moti dell’animo non si mostrano più, non si manifestano più. Come se un piatto di bronzo, lucente e terso fosse riempito dai proprietari con una succosa, ben condita pietanza di riso brillato, bollito, e, copertolo con un altro piatto, lo portassero al mercato. E uno chiedesse cosa nasconde, sollevasse il coperchio e guardasse il contenuto, proverebbe piacere, non nausea, non disgusto, e persino ai sazi verrebbe voglia di mangiare, non dico agli affamati!”
A queste parole si volse l’onorevole Mahāmoggallāno all’onorevole Sāriputto e disse: “Mi viene un paragone.” “Dimmelo, fratello Moggallāno.” “Una volta, fratello, io soggiornavo sulla Costa del monte presso Rājagaham. Mi alzai di prima mattina, presi mantello e scodella, e andai alla città per l’elemosina. Proprio a quell’ora Samiti, il figlio del fabbricante di carri era occupato a piallare una ruota, e Panduputto, un penitente nudo, un sādhu, che prima era stato fabbricante di carri, gli era vicino. Allora a Panduputto, pratico di quell’attività venne questo pensiero: “Oh, se Samiti piallasse questa scheggia, questa vena, questo nodo; allora la ruota, liberata da tutto ciò, risulterebbe di legno purissimo.” E mentre a Panduputto sorgeva un pensiero dopo l’altro, Samiti, come se lo sentisse, piallava scheggia dopo scheggia, vena dopo vena, nodo dopo nodo. Allora il nudo penitente, antico fabbricante di carri, allegramente commosso esclamò:
“Egli pialla come mosso dal cuore!” Ora, fratello, vi sono anche qui persone che malvolentieri, per bisogno e non per fiducia si sono allontanate da casa per ritirarsi nell’eremo, ipocriti, bigotti, santocchi, goffi millantatori, affaccendati ciarloni, cattivi custodi delle porte dei sensi, senza moderazione al pasto, alieni dalla vigilanza, indifferenti all’ascetismo, negligenti nei doveri dell’ordine, pretenziosi, importuni, che cercano anzitutto compagnia, che schivano la solitudine come grave peso, cuori languidi, deboli, teste confuse, privi di chiarezza, spiriti incostanti, distratti, uomini limitati e ottusi: a questi l’onorevole Sāriputto con la sua esposizione ha piallato come mosso dal cuore. E vi sono anche nobili giovani che mossi da fiducia si sono allontanati da casa per ritirarsi nell’eremo; giovani che sono l’esatto contrario di ciò che ho detto dei primi, e a questi l’esposizione dell’onorevole Sāriputto fu quasi cibo e bevanda per il cuore e per l’orecchio. In modo eccellente, invero, tu hai distolto i fratelli dell’ordine da ciò che è dannoso e li hai rinforzati in ciò che è salutare.
Così, in verità, si confortavano reciprocamente quei due grandi con piacevole dialogo.