Majjhima Nikāya 82

Ratthapāla Sutta

Ratthapālo

Questo ho sentito. Una volta il Sublime, girando per la terra di Kurū insieme con una grande comitiva di monaci, pervenne ad un paese dei Kurūni di nome Thūlakotthitam. I brāhmani padri di famiglia della città udirono: “L’asceta Gotamo, figlio dei Sakya, che ha rinunciato alla loro eredità, è giunto qua. A lui si va sempre incontro col buon saluto: ‘Ecco il Sublime, il santo, perfetto Svegliato, provato di sapienza e di vita, il benvenuto, il conoscitore del mondo. Egli insegna la dottrina buona nel principio, nel mezzo e nella fine, fedele di senso e di parola. Felice chi può vedere un tal santo!”

Ed i brāhmani padri di famiglia si recarono dove si trovava il Sublime e lo salutarono in varia guisa: chi riverentemente, chi scambiando con lui amichevoli parole, chi giungendo le mani, chi si fece conoscere per nome e cognome. E tutti si sedettero accanto a Lui che, con istruttivo colloquio, li consigliò, confortò e consolò.

Quella volta era seduto nella triplice assemblea [di guerrieri, sacerdoti e borghesi], un nobile giovane di una delle prime famiglie di Thūlakotthitam, di nome Ratthapālo. Egli pensava: ‘Per quanto capisco della dottrina esposta dal Sublime, non è possibile, restando a casa, adempiere punto per punto la santa vita perfettamente rischiarata e purificata; e se ora io, radendo capelli e barba, indossando l’abito fulvo, rinunziassi alla casa per la mendicità?’ Nel frattempo i partecipanti, accettando ed approvando il discorso del Sublime, si alzarono, salutarono riverentemente e, girando sulla destra, si allontanarono.

Ora Ratthapālo si avvicinò al Sublime e, riferendogli ciò che aveva pensato, disse: “Mi conceda il Sublime accoglienza, mi conceda l’ordinazione!”

“Lo fai col consenso dei tuoi genitori?”

“No, Signore!”

“No, Ratthapālo, i Compiuti non accolgono un figlio senza il consenso dei genitori.”

“Allora farò in modo che me lo diano.” E Ratthapālo, salutò, girò sulla destra, e si allontanò per andare dai genitori. Là giunto, si rivolse loro, riferendo l’accaduto, le sue intenzioni, e chiese il loro consenso: “Mamma, datemi il consenso!”

I genitori risposero: “Tu sei il nostro unico, amato, adorato figliolo, allevato e cresciuto nella gioia: tu non sai che sia il dolore. Vai dunque, caro Ratthapālo, mangiando, bevendo, occupandoti, godendo e facendo opere buone, sarai contento. Noi non ti diamo il consenso. Noi non potremmo fare a meno di te neppure morto, come potremmo farti rinunziare alla casa per la mendicità?” Domanda e risposta furono ripetute tre volte.

Ratthapālo, non ottenendo il consenso dei genitori, si gettò per terra gridando: “Qui mi venga la morte o il consenso!” Ed egli rinunciò a sette pasti, e i genitori per tre volte gli ripeterono che non gli avrebbero dato il consenso, e per tre volte Ratthapālo non rispose.

Allora i genitori si recarono dagli amici del figlio pregandoli di smuoverlo dal suo proposito. E gli amici gli ripetettero per tre volte la stessa esortazione dei suoi genitori, senza ottenere da lui una risposta. A questo punto gli amici si recarono dai suoi genitori dicendo: “Carissimi, il vostro nobile figlio se ne sta disteso per terra e attende la morte o il vostro consenso. Se non gli darete consenso di rinunziare alla casa per la mendicità, aspetterà la morte. Se però gli darete il consenso, lo vedrete almeno come monaco mendicante. E se non sarà contento di aver rinunziato alla casa per la mendicità, dove altro cercherà asilo? Tornerà certamente qui da voi! Date quindi al vostro nobile figlio il consenso.”

“Acconsentiamo, cari, che Ratthapālo rinunci alla casa, a patto però che come monaco mendicante si faccia rivedere da noi genitori.”

Quindi ora gli amici si recarono da lui e gli riferirono le parole dei suoi. Ratthapālo, alzatosi e riprese le forze, si recò dal Sublime, salutò riverentemente, si sedette accanto e gli disse: “Ho avuto il consenso dai genitori: mi accolga ora il Sublime!”

E Ratthapālo ottenne dal Sublime l’accoglienza e l’ordinazione.

Non molto tempo dopo che Ratthapālo era stato accolto, circa mezzo mese dopo l’ordinazione, il Sublime, essendosi trattenuto a Thūlakotthitam quanto aveva deciso, si mise in cammino verso Sāvatthī e, procedendo di luogo in luogo, pervenne a quella città.

L’on. Ratthapālo, dimorando solitario, appartato, instancabile, zelante, costante, ebbe ben presto realizzato quel sommo fine dell’ascetismo per il quale i nobili figli rinunciano alla casa: ‘Esausta è la vita, vissuta la santità, operata l’opera, non esiste più [ritorno in] questo mondo’: egli comprese. Ed ora anche lui era divenuto un altro dei santi.

Quindi egli si recò là dove risiedeva il Sublime, salutò riverentemente, si sedette accanto e disse: “Vorrei, Signore, rivedere i genitori, se il Sublime me lo consente.”

Il Sublime intuì l’intimo pensiero dell’on. Ratthapālo, comprese che era impossibile che egli rinnegasse l’ascesi per ritornare alla vita laica, e gli disse: “Fai come meglio ti pare!”

Allora egli, si alzò, salutò riverentemente e, girando sulla destra, si recò a mettere in ordine il suo giaciglio; prese mantello e scodella, si mise in cammino verso Thūlakotthitam e, procedendo di luogo in luogo, giunse alla città e si sistemò nel parco delle gazzelle del re Koravyo.

L’indomani, pronto di prima mattina, preso mantello e scodella, si diresse alla città per l’elemosina. Passando di casa in casa, giunse all’abitazione di suo padre. Proprio allora, suo padre si stava facendo radere nella sala di mezzo, vedendo da lontano giungere l’on. Ratthapālo, esclamò: “Da questi zucconi di asceti ci è stato tolto il nostro unico, amato, adorato figliolo!”

Così l’on. Ratthapālo, nella casa di suo padre non ottenne né offerta né rifiuto, ottenne solamente insulti. In quel mentre una serva della famiglia stava per gettare la giuncata della sera precedente, allora l’on. Ratthapālo chiese: “Se quella roba, sorella, dev’essere gettata, versane nella mia scodella.” La serva, versandogli la giuncata, lo riconobbe, ed allora corse dalla madre dell’onorevole gridando: “Ehi, signora: il padroncino Ratthapālo è arrivato!”

“Oh, se dici la verità, non sarai più serva!”

E la madre corse dal padre di lui e gli disse che il figlio era arrivato.

Nel frattempo l’onorevole, sedutosi al riparo d’un muro, mangiava la giuncata della sera precedente. Il padre che lo cercava, giunse presso di lui e gli disse: “È possibile, caro, che tu mangi cibo avanzato? Non vuoi entrare in casa tua?”

“Dove mai, padre di famiglia, noi che abbiamo rinunziato alla casa per la mendicità, avremmo una casa? Senza casa, siamo noi. Noi siamo venuti a casa tua, ma abbiamo ottenuto solo insulti.”

“Suvvia, caro, entriamo in casa.”

“Basta, padre di famiglia: per oggi ho fatto il mio pasto.”

“Allora, caro Ratthapālo, concedimi [di offrirti] il pasto per domani!”

E l’onorevole acconsentì, tacendo.

Ottenuto questo consenso, il padre dell’on. rientrò in casa, fece radunare e coprire di stuoie una grande quantità di oro e di oggetti preziosi, quindi si rivolse alle antiche compagne del figlio: “Qui, voi sposine! Ornatevi con quegli ornamenti con i quali prima riuscivate care e gradite al nobile giovane Ratthapālo!”

Il mattino seguente, avendo fatto preparare in casa pietanze e bevande squisite, fece avvertire l’on. Ratthapālo che il pranzo era pronto. Ed egli, già pronto di prima mattina, preso mantello e scodella, si recò alla casa di suo padre e, qui giunto, si sedette sull’offerto sedile. Il padre, facendo scoprire quel mucchio d’oro e di oggetti preziosi, disse: “Questa è la parte di ricchezza che ti viene dalla madre; un’altra da me; un’altra dall’avo: si può, caro figlio, godere le ricchezze e fare opere buone. Suvvia, rinnega l’ascesi, ritorna alla vita ordinaria, goditi le ricchezze e fa opere buone!”

“Se tu, padre di famiglia, volessi invece seguire il mio consiglio, allora, facendo caricare e trasportare dai carri tutte queste ricchezze, le faresti affondare nella corrente di mezzo del fiume Gange. E sai perché? Da esse deriveranno a te cure, guai, dolore, afflizione e disperazione.”

Nel frattempo le antiche compagne, gettandoglisi ai piedi, dissero: “Come sono dunque, signorino, quelle ninfe per le quali tu conduci vita religiosa?”

“Non certo per delle ninfe, sorelle, noi conduciamo vita religiosa.”

“‘Sorelle’ ci ha chiamato il signorino Ratthapālo!”: così gridarono le compagne, e caddero svenute al suolo.

Ora l’on. Ratthapālo disse al padre: “Se vuoi darmi del cibo, dammelo: non mi tormentare!”

“Mangia, caro, il pranzo è pronto.” E il padre lo servì di propria mano.

Quando l’on. Ratthapālo ebbe finito di mangiare, si alzò e recitò questi versi:

Guarda la bella figura, che dentro è tutta marciume,
ripiena di brame, ma inferma e senza durata!

Guarda il bel corpo, ornato di gemme e d’aurei gioielli:
come risplendono, sopra le ossa, la pelle e le vesti!

I piedini laccati, la bocca odorosa, dipinta,
già illudon lo stolto, ma non quegli che guarda più in là.

L’ottuplice treccia, le palpebre bistrate di nero,
già illudon lo stolto, ma non quegli che guarda più in là.

I belletti ed i bistri ed il putrido corpo adornato
già illudon lo stolto, ma non quegli che guarda più in là.

Dispose il laccio il cacciatore: ma fuggì la gazzella,
mangiò la pastura, e lasciò lamentoso il nemico.

Recitati questi versi, egli ritornò al parco delle gazzelle del re Koravyo, e là si sedette al piede d’un albero, per restarvi sino a sera.

Ora avvenne che il re Koravyo fece chiamare il gran cacciatore: “Perlustra il parco delle gazzelle e la riserva; vogliamo fare una passeggiata nella tenuta.” Il cacciatore lo fece, vide [e riconobbe] l’on. Ratthapālo e riferì al re: “Nel parco vi è un nobile giovane di nome Ratthapālo, il figlio di una delle prime famiglie di Thūlakotthitam, del quale tu hai spesso parlato con ammirazione. Egli è seduto al piede d’un albero.”

“Allora lasciamo perdere la passeggiate, ora vogliamo fare una visita a questo signor Ratthapālo.” E il re Koravyo ordinò di caricare i cibi le bevande preparate, e, avendo fatto aggiogare molti carri, montò sopra uno di essi ed uscì con gran pompa dalla città. Giunto coi carri fin dove la strada lo permetteva, smontò e proseguì a piedi fin dove si trovava l’on. Ratthapālo: là giunto, scambiò con lui cortese saluto e notevoli amichevoli parole, e gli stette accanto.

“Si sieda l’onorevole qui, sulla sedia da campo!”

“Grazie, gran re, siedi tu: io resto al mio posto.”

Il re si sedette e disse: “Vi sono quattro malanni, Ratthapālo, colpiti dai quali, alcuni, radendo capelli e barba, indossando l’abito fulvo, rinunziano alla casa per la mendicità: il malanno della vecchiaia, quello della malattia, quello della proprietà e quello dei congiunti.

Il malanno della vecchiaia è questo: uno è vecchio, avanti con gli anni, giunto alla fine della vita. Egli riflette: ‘Ormai, vecchio come sono, non mi conviene più acquistare nuove proprietà o far prosperare quelle che ho. Se quindi ora rinunziassi alla casa per la mendicità?’ Ed egli, colpito dal malanno della vecchiaia, fa proprio così. Ora però il signor Ratthapālo è ancora giovane, fiorente, coi capelli neri, nel godimento della felice giovinezza, nel fiore degli anni; non esiste per lui questo malanno. Cosa ha provato, visto o sentito che lo ha fatto rinunciare alla casa per la mendicità?

E il malanno della malattia? Ecco, uno è infermo, dolorante, gravemente ammalato. Egli riflette: ‘Malato come sono non mi conviene più acquistare nuove proprietà o far prosperare quelle che ho. Se quindi ora rinunziassi alla casa per la mendicità?’ Ed egli, colpito dal malanno della malattia, fa proprio così. Ma ora il signor Ratthapālo è sano, di buona salute, fornito d’uno stomaco che digerisce bene; non esiste per lui il malanno della malattia. Cosa ha provato, visto o sentito che lo ha fatto rinunciare alla casa per la mendicità?

E il malanno della proprietà? Ecco, uno è ricco, gran possidente, gran proprietario; ma le sue proprietà a poco a poco vanno alla malora. Egli riflette: ‘Con quello che mi è capitato non mi conviene più acquistare nuove proprietà o far prosperare quelle che ho ancora. Se quindi ora rinunziassi alla casa per la mendicità?’ Ed egli, colpito dal malanno della proprietà, fa proprio così. Ma ora il signor Ratthapālo è figlio di una delle più importanti famiglie di Thūlakotthitam; non esiste per lui il malanno della proprietà. Cosa ha provato, visto o sentito che lo ha fatto rinunciare alla casa per la mendicità?

E qual è, Ratthapālo, il malanno dei congiunti? Ecco, uno ha molti amici e parenti, congiunti e consanguinei; ma molti di essi a poco a poco gli muoiono. Egli riflette: ‘Tutti questi lutti mi hanno rattristato, non me la sento più di acquistare nuove proprietà o far prosperare quelle che ho. Se quindi ora rinunziassi alla casa per la mendicità?’ Ed egli, colpito dal malanno dei congiunti, fa proprio così. Ora però il signor Ratthapālo ha ancora in questa città molti amici e parenti, congiunti e consanguinei; non esiste per lui il malanno dei congiunti. Cosa ha provato, visto o sentito che lo ha fatto rinunciare alla casa per la mendicità?”

“Sono stati, gran re, da Lui, dal Sublime, perfetto Svegliato, annunziati quattro enunciati della dottrina, sentendo, vedendo e provando i quali, ho rinunziato alla casa per la mendicità. ‘Trapassa l’instabile mondo’: questo è il primo enunciato. ‘Da sé soli si sta al mondo, senza aiuto’: questo è il secondo enunciato. ‘Il mondo non è proprio: si deve andarsene lasciando tutto’: questo è il terzo enunciato. ‘Manchevole è il mondo, insaziato, sitibondo’: questo è il quarto enunciato.”

“‘Trapassa l’instabile mondo’: hai detto. Com’è da intendersi il senso?”

“Tu che pensi, gran re: tu, a venti, venticinque anni eri capace di montare sull’elefante ed a cavallo, capace di guidare il carro, di tendere l’arco e di brandire la spada, forte di gambe, forte di braccia, pronto ed atto alla battaglia?”

“Certo che sì, Ratthapālo! A volte mi pareva d’avere una forza soprannaturale: non vedevo nessuno pari a me nella forza!”

“Sei ancora così forte?”

“No di certo: adesso sono vecchio. Corre per me l’ottantesimo anno. A volte voglio mettere il piede qui, e invece lo metto là.”

“A questo si riferiva il Sublime con quel primo enunciato.”

“È mirabile, è stupendo ciò che Egli ha detto, perché trapassa infatti l’instabile mondo!

Si contano ora in questo regno masse di elefanti, di cavalli, di carri, masse di fanti che nei pericoli possono esserci di protezione. Come è da intendersi il senso di ‘Da sé soli si sta al mondo, senza aiuto’?”

“Gran re, tu soffri di qualche malattia cronica?”

“Soffro di artrite cronica. A volte amici, congiunti, parenti e consanguinei, riuniti attorno a me, pensano: ‘Questa volta il re Koravyo morirà! Non ce la farà!”

“Tu che pensi, gran re; potresti ottenere da loro questo: ‘Voi tutti qui presenti, dividete tra voi questo dolore, affinché io soffra un dolore più lieve!’ O devi soffrire quel dolore da solo?”

“Non posso ottenere ciò. Devo soffrire quel dolore da solo.”

“Questo intendeva il Sublime con il secondo enunciato.”

“È mirabile, è stupendo ciò che Egli ha detto, perché da sé soli infatti si sta al mondo, senza aiuto!

Si conta ora in questa reggia grande copia di oro e di argento, nei sotterranei ed all’aperto. Come è da intendersi il senso di ‘Il mondo non è proprio: si deve andarsene lasciando tutto’?”

“Tu che pensi, gran re; come vivi qui, dotato delle cinque facoltà di bramare, lo otterrai anche nell’al di là: oppure altri entreranno in possesso di questa proprietà, e tu procederai secondo le azioni?”

“No. Non otterrò anche di là, ciò di cui sono dotato qui.”

“Questo intendeva il Sublime con il terzo enunciato.”

“È mirabile, è stupendo ciò che Egli ha detto, perché infatti il mondo non è proprio, e si deve andarsene lasciando tutto.

“Come è da intendersi il senso di ‘Manchevole è il mondo, insaziato, sitibondo’?”

“Gran re, tu governi il florido regno di Kurū?”

“Certo, Ratthapālo!”

“Tu che pensi, gran re; se venisse da te un uomo veritiero, degno di fede, ed egli, presentandosi a te dicesse: ‘Gran re, vengo dalla regione orientale. Là ho visto un grande paese florido, prospero, pieno di gente! Vi sono grandi masse di elefanti, di cavalli, di carri e di fanti! Vi è molto avorio, e pellame, molto oro ed argento, grezzo e lavorato! Vi è gran copia di donne! Con una spedizione lo si può conquistare: conquistalo, gran re!’ Che faresti tu allora?”

“Lo conquisterei e lo governerei.”

“E se venisse a te dalla regione occidentale, o da quella settentrionale, o da quella meridionale un uomo veritiero, degno di fede, che ti dicesse: ‘Gran re, vengo d’oltremare. Là ho visto un grande paese florido, prospero, pieno di gente! Vi sono grandi masse di elefanti, di cavalli, di carri e di fanti! Vi è molto avorio, e pellame, molto oro ed argento, grezzo e lavorato! Vi è gran copia di donne! Con una spedizione lo si può conquistare: conquistalo, gran re!’ Che faresti tu allora?”

“Lo conquisterei e lo governerei.”

“A questo riferendosi dunque, gran re, Egli, il Sublime, il perfetto Svegliato, ha detto che il mondo è insaziabile. Ed è per tutto ciò che io ho lasciato la casa per la mendicità.”

“È mirabile, è stupendo ciò che Egli ha detto, perché il mondo è proprio insaziato e sitibondo.”

L’on. Ratthapālo allora aggiunse questi versi:

Vedo nel mondo uomini ricchi e potenti che, stolti, non danno:
avidi ammassano ricchezza, e più nella brama s’invischiano.

Se un re conquistasse la terra, dominandola fino all’orlo del mare:
dalla sponda di qua insoddisfatto, l’altra sponda del mar bramerebbe.

Il re ed altri molti uomini con sete non spenta incorrono in morte:
essendo bramosi, non gettano il corpo; di brame nel mondo non v’è sazietà.

Lo piangono i congiunti, strappandosi i capelli. ‘Ahi, dura legge il morire!’
lo vestono, ne fanno il trasporto, ammassano il rogo, e quindi lo ardono.

Egli arde, girato da spiedi, con un’unica veste lasciando le sue ricchezze:
al morto non sono or qui d’aiuto i congiunti, né gli amici o i compagni.

Gli eredi ne prendono le ricchezze; egli procede secondo le azioni:
il morto non seguono ricchezze, non figli né moglie né soldi né terra.

Non si ottiene lunga vita col denaro, né si scampa vecchiezza:
breve è la vita, dicono i savi, impermanente, mutabile.

Ricchi e poveri si consumano nel contatto; lo stolto ed il savio ne sono toccati:
ma lo stolto perisce, percosso con forza; il sapiente, toccato, non trema.

Quindi migliore di ricchezza è sapienza, che ci dà beata fine:
impigliati nell’essere e non essere, fanno cattive azioni gli stolti.

Si nasce in questo e in altro mondo, e si gira per il circolo dell’esistenza:
chi con poca sapienza crede, rinasce in questo ed anche in altro mondo.

Come il brigante, catturato, è ucciso dalle proprie azioni, il malvagio:
così l’uomo, trapassato, è ucciso dalle proprie azioni, il malvagio.

Le brame belle, dolci, piacenti, con allucinazioni agitano la mente:
nelle brame la miseria scorgendo, son divenuto mendicante, o re.

Come frutti dell’albero cadono morti gli uomini, acerbi e maturi:
questo vedendo, son divenuto mendicante, o re: sicura è l’ascesi.